Locus sonus

Installazione sonora site specific, Casa delle Letterature, Roma, 2015.

Ceramica, fiberglass, cavi elettrici, ventole, arduino. 13 elementi. Dim.variabile

 

PAOLO AITA

SU LOCUS SONUS DI SIMONE BERTUGNO.

Sebbene l’arte contemporanea nelle sue produzioni si affidi, a volte, a una disinvolta teorizzazione dell’opera, al contrario, nel lavoro di Simone Bertugno è agevole notare la presenza profonda di un progetto e dell’utopia. Il progetto è antichissimo: svelare la vita nel suo nascere attraverso l’arte. Oggi non è più così. Non c’è la filosofia a tenere insieme i fili di tutta la ricerca attorno l’humanitas, e la relatività vanifica qualsiasi progetto. Di questa condizione è perfettamente consapevole Simone Bertugno, che, pur nutrendo un progetto antico, e probabilmente impossibile, non smette di subirne il fascino, e continua a mettere insieme saperi differenti, nella speranza di coglierne la genesi comune. Una fantasia simile alla sua la possiamo scorgere nelle statue, spesso di sirene, che decorano le chiglie delle navi, oppure nelle decorazioni poste sui ricci dei violini, spesso di esseri demoniaci, immaginari ispiratori dell’abilità diabolica di ogni bravo virtuoso. Si tratta di un’arte suppletiva, che, mediante queste immagini aggiunte, da una parte non vuole contestare lo statuto degli strumenti, dall’altra, mediante una decorazione completamente fantastica, sembrerebbe voler entrare in ingenua competizione con i frutti di questi stessi strumenti (viaggi e melodie, uniti significativamente in una dimensione di intrigante liquidità e volubilità), sovrapponendo il decoro all’estro. Per garanzia che il risultato della ricerca estetica sia giusto, ci si affida alla bellezza, che lo porta naturalmente in sé, e sempre in statu nascenti, perché la bellezza è il codice stesso della vita. Venere esce dalle acque di Cipro, terra del metallo, del rame precisamente, ed è laminata, ovvero coperta da scaglie metalliche luminescenti. Risplende, e questi riflessi cangianti sono una metafora della vita, nelle pagine di J. L. Nancy. Per Lucrezio è unica la genesi del senso (immateriale) e dei vermi (al contrario estremamente, eccessivamente, concreti, e messi insieme allo spirito in modo troppo disinvolto per non generare sospetti…), quindi materiale e immateriale si confrontano e sostengono reciprocamente. Entrambi questi saperi sono uniti nelle pagine di Starobinski-De Saussure, che analizzano l’Inno a Venere con una operazione di unione di culture perfettamente lecita; infatti anche l’antichità tra i suoi mezzi ha l’unione di ambiti e strumenti culturali, e così raccogliere con precisione l’attimo della nascita della vita. Ogni genesi è ovviamente inedita; per forza di cose da sempre porosa, multidisciplinare. Linguaggio e biologia sono messi insieme, per ottenere uno strumento atto a rappresentare l’inedito, che si verifica in ogni nascita, perché se la sua essenza fosse già nota, non ci sarebbe motivo per il suo rinnovamento e manifestazione.

Allo stesso modo nell’opera di Simone Bertugno musica e arte sono fuse, e l’atto generativo è sia nella proposta di oggetti che possiamo vedere e udire, quindi formalmente più che definiti, sia nel concepirli come aperti, dunque da finire e rifinire con l’uso che se ne propone. Le forme che li sottendono sono le più vicine alla natura. Simone Bertugno è un artista contemporaneo anche perché non si fa illusioni: l’estetica è morta, e se continuiamo ad occuparcene lo facciamo perché vogliamo conoscere meglio il codice formativo della natura, ad esso somigliare e appartenere, per far parte della bellezza universale. Ma la bellezza in queste opere è residuale, non frontale, ovvero non è ricercata come risultato, ma è trovata perché ad essa ci si affida, con una pratica lunga millenni, per trovare i migliori ricettacoli dell’umano.

L’insieme di forma definita e utilizzazione aperta e sconosciuta, nell’opera di Simone Bertugno dà origine a un momento orgiastico, perché forma e funzione sono unite in questi strumenti musicali. Questa unione non è fatta al modo del design, ma in un modo sconsiderato e impertinente, poiché non si propone come risultato l’armonia musicale o la soddisfazione di un bisogno, al contrario questi strumenti suonano insieme, e ci invitano a suonare con loro, affinché tutti insieme ‘ci si perda meglio’: questa è l’utopia. Si vuole ottenere un effetto di critica ai saperi consolidati piuttosto vistoso, poiché l’opera non vuole realizzare la bellezza, ma il coinvolgimento, con ulteriore e definitivo smarrimento. La cultura tradizionale può essere una chiave d’accesso degli insiemi estetici di Simone Bertugno, ma gli intendimenti e i risultati sono così differenti da quelli usuali, che ne deriva una sorta di s-concerto, piuttosto che un’armonia universale, come avveniva nella cultura antica: queste opere d’arte confessano una natura di strumenti musicali, quindi danno risposte oblique, quando chiediamo loro un’estetica. Ecco il fondo pessimistico dell’opera di Simone Bertugno, che gli prescrive, oltraggiosamente, di essere artista e musicista insieme, in una puntuale doppiezza.

Nell’installazione della Casa delle Letterature il gioco è tutto sui volumi. Lo sfioramento sonicamente microscopico delle pagine viene agito nell’ambiente attraverso i trasduttori, che lo restituiscono esplicitato allo spettatore. Al contrario la commistione del sonoro col vegetale, negli alberi, rimanda a una segretezza virginale da scoprire soprattutto con gli occhi, forse, poiché ne siamo stati catturati primariamente attraverso il sonoro. In ogni caso il fascino che emana da questa installazione, nel suo complesso, è quello di un’enciclopedia impazzita: queste forme trascolorano una nell’altra, e anche il titolo rimanda a uno dei maestri della trasmutazione del ‘900, a Roussel. A scambiarsi qui non sono le parole, ma le forme tra loro, e queste con i suoni. A perdersi, a non raggiungerci, è proprio il comprendere, al quale nell’antichità, dispiegando, ci si affidava. Tutti i libri è come se fossero cancellati nel loro uniforme frusciare. Il loro è il suono dell’Odradek di Kafka: un bisbiglio che occorre tradurre, amplificandolo, affinché finalmente arrivi a noi. E di libri è anche il suono di questi flauti, infatti più che a musica rimandano a permutazioni, comunque non ovidiane, perché c’è un passaggio di un linguaggio all’altro del tutto assente nella cultura classica, inoltre non c’è esplicazione del mito. Col complesso di questa installazione si può dire che un luogo è stato sviscerato: i suoi contenuti intrinseci sono stati portati alla ribalta, e mediante l’unione di sonoro e visivo sono stati convocati ad uscire tutti i fantasmi che allignano tra quelle mura. Attraverso le sculture e il sonoro la biblioteca è stata, al contrario, riportata alle sue ombre, in uno smarrimento del sapere frontale che è contemporaneamente culla e tomba del libro.

Paolo Aita

Roma, aprile 2015.

Foto: Giorgio Benni